Luca Giuman torna in libreria con Al Presente, Tutto uscito a novembre per la casa editrice Il Ciliegio, collana di Narrativa.
Giuman è un esperto di sviluppo internazionale e diritti umani con le Nazioni Unite in Palestina, Haiti e in vari paesi dell’America Latina e dei Caraibi. Con il suo ultimo libro ci porta in Honduras, nel giugno del 2009, quando il Presidente viene arrestato e detenuto dai militari per essere poi deportato in Costa Rica.
Luca Giuman (Venezia, 1982) ha studiato a Padova, Madrid e Parigi. Ha lavorato come esperto di sviluppo internazionale e diritti umani con le Nazioni Unite in Palestina, Nepal, Haiti e in vari paesi dell’America Latina e dei Caraibi. Ha vissuto a lungo in Honduras e in Colombia, dove risiede attualmente con la moglie e i due figli. Come consulente ha contribuito a programmi per i diritti delle donne in Messico, Guatemala ed Equador, e ha collaborato come reporter per la Revista Semana in Bolivia e Venezuela. Ha all’attivo altri due romanzi: Ho imparato a uccidere a vent’anni (Città del sole, 2011) e Giù dal cielo la mia anima (La Vita Felice, 2015).
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Luca, nonostante la giovane età, hai all’attivo già tre libri e un mare di lavoro svolto come consulente per Le Nazioni Unite in giro per il mondo. Un lavoro che ti ha portato anche a collaborare a progetti per le donne.
La mia vita professionale si divide in due. Ho iniziato a scrivere a sedici anni. L’ho continuato a fare con serietà, dedicandomi a romanzi che sviluppo su lunghi periodi e che si nutrono delle esperienze che vivo all’estero. Scrivere mi permette di mettere in scena le domande che mi abitano; o che mi ossessionano, se vuole. Nei romanzi cerco risposte. Mi interrogo. Dubito. Metto in causa le mie credenze. Uso i romanzi per guardare in me stesso, ma anche come specchio per raccontare la storia dei paesi. Dedico l’altra metà del mio impegno alle consulenze internazionali.
Ho il privilegio di lavorare come collaboratore delle Nazioni Unite. Per le Nazioni Unite ho operato nella maggior parte dei paesi dell’America Latina, in Nepal, a Haiti, negli Stati Uniti e in Palestina. Il mio prossimo impegno mi porterà a Papua Nuova Guinea. Tra le agenzie delle Nazioni Unite ho collaborato per l’Alto Commissionato dei Diritti Umani, per l’UNDP, per l’UNFPA, ma la maggior parte del mio lavoro lo svolgo con UN Women, l’entità delle Nazioni Unite che promuove i diritti delle donne e delle bambine.
In UN Women svolgo principalmente due funzioni: disegno programmi di risposta umanitaria per garantire i diritti di donne e bambine in contesti di conflitto armato o emergenza, e aiuto l’entità a mobilizzare risorse per programmi di prevenzione e risposta alle diverse forme di violenza di genere.

I diritti delle donne in Sudamerica, e nel mondo, ancora tanto abbiamo da fare in questo campo. Una tua riflessione.
Ho svolto programmi per i diritti delle donne almeno in una ventina di paesi. Uno splendido viaggio che continuo a percorrere. Splendido perché, in primo luogo, mi ha condotto a mettere in discussione ciò che siamo come italiani, ciò che sono. E mi ha messo di fronte, in modo brutale, a tutti i miei errori, alla mia ignoranza. Gli studi di genere mi hanno svelato quanto della cultura da me ereditata, o imposta attraverso norme sociali maschiliste, avesse condizionato il mio comportamento. Penso spesso che se mi fossi avvicinato prima agli studi di genere avrei evitato di fare soffrire diverse persone, e forse io stesso avrei sofferto meno.
Proverò a semplificare al massimo alcuni concetti che mi sembrano pertinenti anche per l’Italia. La premessa è che parlo come uomo che lavora per i diritti delle bambine e delle donne, però mi rivolgo principalmente agli uomini, in questo intervento.
La disuguaglianza di genere è prodotta di un’asimmetria di potere. E questa asimmetria di potere si basa su aspetti culturali e tradizionali di origine discriminatoria. Il femminismo parla di “sistemi patriarcali”, ovvero modelli sociali, culturali ed economici in cui il potere e l’autorità sono principalmente detenuti dagli uomini.
Si parla di genere, perché la discriminazione e la disuguaglianza tra i sessi non è di natura biologica, ma sociale. È il modo in cui costruiamo socialmente l’essere uomo, o l’essere donna, che ha generato una società che, di fatto, discrimina le donne o le rilega a ruoli politici e sociali di secondo piano. Questo è stato dimostrato in modo sistematico dalle autrici femministe. Ma essendo la disuguaglianza una costruzione sociale è possibile trasformarla. Molti paesi hanno fatto enormi passi avanti. Pensi alla partecipazione politica delle donne in Bolivia. Si prendano in considerazione i progressi compiuti dalla Svezia riguardo alla possibilità di trasferire i diritti del congedo di maternità/paternità all’interno della coppia. O i progressi della Spagna, un paese conservatore di stampo fascista fino agli anni Settanta, e che ha oggi il movimento delle donne più dinamico, ampio e contundente d’Europa.
L’uguaglianza di genere, ovvero uno stato di uguaglianza effettiva, reale, tra uomini e donne, si può raggiungere solo attraverso la decostruzione dei sistemi patriarcali. Ovvero: attraverso la redistribuzione equa del potere e della situazione di dominanza. Da secoli, le donne hanno fatto e continuano a fare la loro parte. Ma non hanno trovato in noi uomini un alleato, o un partner, per la trasformazione dei modelli culturali che sostengono la società patriarcale. Come sesso, noi uomini, abbiamo ignorato i temi di genere. Per ignoranza, nel migliore dei casi, per mancanza d’empatia forse, o probabilmente per vile comodità: non abbiamo voluto cedere la nostra posizione di vantaggio.
Alcuni lettori storceranno il naso, qui. Avranno dubbi. A quale situazione di vantaggio si riferisce questo? Si chiederanno. Rispondo in modo sereno alle critiche. Parlo del fatto che gli uomini occupano la maggior parte dei posti politici di elezione popolare. Parlo che, a parità di responsabilità, in genere le donne guadagnano meno e che le donne, in media, dedicano più tempo degli uomini al lavoro non remunerato (si prendono cura dei bambini o degli anziani, per intenderci).
Do un paio di cifre. In Italia, nel 2021, il 48% delle donne e il 29% degli uomini ha dichiarato di prendersi cura e sorvegliare i bambini di età compresa tra 0 e 11 anni completamente o principalmente da soli. Durante la pandemia, più donne (39%) rispetto agli uomini (16%) hanno trascorso più di quattro ore al giorno a occuparsi dei loro figli di età compresa tra 0 e 11 anni. Ciò che suggeriscono questi numeri è che, se le donne investono più tempo nel lavoro non remunerato, ne hanno meno per quello remunerato, per studiare o per prendersi cura di sé stesse. E questa iniquità si sostiene esclusivamente per norme sociali di genere di natura discriminatoria.
Per non estendermi in modo eccessivo, credo che le priorità in Italia, così come in molti paesi, per avanzare siano servizi di educazione gratuita fin dalla primissima infanzia per liberare un carico di lavoro non remunerato che, ad oggi, ricade in modo sproporzionato sulle donne. Per combattere i temi di violenza di genere, un elemento fondamentale è il lavoro sul cambio delle norme sociali sessiste che riproducono e sostengono la violenza contra le donne e le bambine, e che conducono in casi estremi al femminicidio. Mentre in campo economico, credo sinceramente che una scommessa interessante per il futuro sarebbero programmi che incentivano una maggiore partecipazione delle donne in carriere STEM, Matematica, Informatica, Scienze e Tecnologia. Bisognerebbe rompere gli stereotipi di genere che fanno che le ragazze abbiano il timore o non si credano adatte per diventare ingegnere, o disegnatrici di software, perché è in queste professioni che, nel futuro risiedono le maggiori opportunità di progresso. Le scuole medie e i licei pubblici dovrebbero ripensare completamente i curriculum e generare curiosità tra le alunne in queste aree.
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